La produzione del Don Carlos nella regia di Krzysztof Warlikowski, risalente alla stagione 2017 dell’Opéra Bastille e allora accolta dalla critica con lodi per gli interpreti e riserve per la concezione registica, viene ora riproposta con un cast canoro del tutto rinnovato. Un primo titolo di merito dell’allestimento, ripreso sotto la guida di Marguerite Borie, è rappresentato dalla presentazione integrale della partitura così come fu ascoltata nel 1867 nelle ultime prove presso la “grande boutique” (così chiamava Verdi la farraginosa macchina dell’Opéra), prima che si decidesse di operare gli otto tagli della prima rappresentazione che ridussero di una mezz’ora abbondante la durata dell’opera, permettendo così al pubblico di raggiungere gli ultimi treni verso i dintorni di Parigi. Possiamo così ascoltare pagine musicali di rarissima esecuzione, quali la prima versione del duetto Philippe-Rodrigue (“Tu m’as vu sur mon trône”, II/ii), completa della cabaletta finale (che nel linguaggio complessivo dell’opera suona un po’ “old style”), il duettino Eboli-Élisabeth “J’ai tout compris” (IV atto), o, ancora, la primitiva versione della scena della sommossa, incluso il seguente “processo” intentato a Don Carlos (IV/ii). Altri numeri, quali il coro “Mandolines, gais tambours” all’inizio del Ballet de la reine (III/i), o “Qui me rendra ce mort” (il compianto di Philippe sulla morte di Rodrigue, riutilizzato, come noto, nel Lacrymosa del Requiem), sono più conosciuti attraverso altre produzioni, realizzate in versione, per così dire, “ibrida”, cioè con ripristino solo parziale dei tagli.
La messa in scena di Warlikowski, accolta dal pubblico della prima del 29 marzo da evidenti dissensi, punta principalmente all’analisi dei rapporti interpersonali, posti in primo piano rispetto alla pur fondamentale tematica politica. Le relazioni private sono tuttavia filtrate dal regista da un atteggiamento di distanza dalla materia, estraniante, di per sé del tutto legittimo, ma impopolare. Forse l’insoddisfazione del pubblico nasce proprio da tale problema: la compresenza di un intento psicologizzante forte e, d’altra parte, di scene, costumi, soluzioni drammaturgiche che non permettono a spettatrici e spettatori di calarsi pienamente nei sentimenti, nelle qualità eroiche delle figure, o di compatirne gli umani errori.
Nella scena della foresta di Fontainebleau, ad esempio, Élisabeth appare accanto a un cavallo bianco, vestita di bianco, e resta a lungo immobile in tale posizione, come fosse una statua, in una scena in cui il palcoscenico è diviso tra la prevalenza cromatica del bianco nella metà destra e l’apparenza multicolore del coro sul lato sinistro. Il coro è abbigliato in costumi anni Cinquanta, separato da una transenna dal lato in cui agiscono Élisabeth e Carlos. La povertà del popolo francese, la durezza dell’inverno, la richiesta accorata di pace alla futura regina di Spagna possono essere qui comprese solo dalla conoscenza del libretto; la scena, per quanto coerentemente strutturata, lascia un effetto di congelamento delle emozioni, ciò che probabilmente è proprio l’intento del regista.
Nella scena dell’Auto da fé assistiamo molto più alle reazioni del coro e della corte spagnola allo “spettacolo” del sacrificio degli eretici, che non al rituale stesso: il coro è rivolto frontalmente verso il parterre, e anche Élisabeth e Philippe partecipano guardando al pubblico seduti su inginocchiatoi. Ciò permette a Warlikowski di concentrarsi, anche qui, sui sentimenti privati. Philippe entra in scena ubriaco, non ancora vestito per la “festa”, mentre Élisabeth è già pronta in abiti cerimoniali. Non padrone delle proprie azioni, egli cerca di concupire, quasi costringendola, Élisabeth, che si ritrae con forza. Quando compaiono i députés flamands e Carlos, decisi a promuovere la causa delle Fiandre, Élisabeth cerca con un gesto minimo della mano di difendere le ragioni dell’infante presso Philippe, ma questi ritrae con fermezza il suo braccio. In questo caso l’avversione politica del re e la sua stizza verso Élisabeth emergono a un tempo grazie a un brevissimo gesto, in uno dei momenti più felici della messa in scena. Chi si fosse aspettato il lato spettacolare dell’Auto da fé è restato senz’altro deluso, dal momento che un unico prigioniero viene portato in scena per subire l’esecuzione, e il rogo è solo discretamente accennato per mezzo di una proiezione, seguito da un’immagine di cannibalismo chiaramente derivata dalle peintures noires di Goya, in particolare da Saturne dévorant un de ses enfants.
Probabilmente la soluzione scenica che ha più disturbato il pubblico è stata quella del quarto atto, che si svolge quasi integralmente all’interno di una stanza/scatola arredata con una impersonale freddezza, ciò che mette a dura prova le nostre capacità immaginative. In questa scatola si trovano solo poltrone di pelle, le luci sono bianche, il colore prevalente è il grigio. In tale spazio desolato, di fatto una sorta di asettica sala d’attesa, anch’essa tutta frontale come l’Auto da fé, si consumano le passioni più forti del dramma: la solitudine di Philippe, la delusione di Élisabeth, la contrizione di Eboli. Le soluzioni sceniche di Małgorzata Szczęśniak per il chiostro di Saint Juste e per la prigione di Carlos, rispettivamente un cubo rosso e grigio, sviluppano con la massima coerenza tale concezione scenico-drammaturgica sospesa tra spazi mentali del gelo e della claustrofobia.
Nella scena finale, come già in quella del chiostro nel primo atto, la regia sceglie di separare visivamente il ruolo vocale del frate da quello, esclusivamente mimico, di Carlo V, che appare come un vegliardo in uniforme, pluridecorato. In tal modo, con una scelta non usuale e del tutto legittima, si rende più chiaro che gli atterriti astanti credono davvero di vedere il fantasma dell’imperatore, convinti di udire la sua voce in quella del frate. Nel sacrificio finale di Carlos, il fantasma di Carlo V accompagna l’infante nel suo gesto disperato di autoannientamento, come se egli fosse costretto al suicidio dal potere anziché essere vittima di una esecuzione diretta, o anziché essere attratto nell’aldilà dallo spettro (come voleva la versione verdiana). Su tale immagine cristallizzata, duplicata dalla proiezione in grande del viso di Carlos, cala il sipario.
L’occasionale lavoro dei cantanti sulla gestualità individuale, forse frutto di scelte personali, non necessariamente registiche, raggiunge talvolta eccellenti risultati. Quando Élisabeth riceve l’annuncio da Thibault relativo al prossimo, indesiderato matrimonio con Philippe, Marina Rebeka sorride, rispondendo a un riflesso condizionato che le fa udire illusoriamente il nome di Carlos, e solo dopo un attimo si volta, comprendendo, ancora incredula, il contenuto della notizia. Contemporaneamente, Charles Castronovo/Carlos si accascia lentamente contro la scrivania (sulla quale domina il busto di Carlo V), per poi cadere al suolo. Un altro momento di grande teatro.
Nella compagnia di canto tutte le prove, calorosamente apprezzate dal pubblico, sono di grande qualità, con alcuni momenti di eccellenza che superano il livello medio di comunque altissima professionalità. La voce di Marina Rebeka, così priva di sforzi, dal timbro lucente, si propaga per la grande sala della Bastille senza problemi. Le sue mezze voci sono solo appena più “pigre” rispetto a quelle della sua sensazionale Aida del 2023 alla Staatsoper di Berlino, ma nella sua aria “Ô ma chère compagne” ci regala un fraseggio da manuale, impreziosito da una ripetizione in piano della grande frase in acuto “Tu vas revoir la France”.
Nella parte di Don Carlos, Charles Castronovo è tenore dal volume non grandissimo, ma sapiente musicista, capace di calibrare il fraseggio in tutti i luoghi in cui ciò è richiesto. Alcuni momenti sono risolti senza la spavalderia tenorile di altri colleghi, ad esempio il famigerato Si acuto durante lo scontro con Philippe nel terzo atto, cantato senza punto coronato e privato di ogni carattere di climax vocale; per contro, la raffinatezza interpretativa entra in gioco in momenti come il terzetto con Eboli e Élisabeth nel terzo atto, laddove la sua linea acuta, in spicco rispetto alle altre due voci, diminuisce di volume a fine frase, in pieno rispetto del dettato verdiano e in consapevolezza del senso di interazione musicale con le colleghe.
Nel ruolo di Rodrigue, il baritono polacco Andrzej Filończyk dà una prova magistrale per bellezza timbrica e soprattutto per eccezionali fiati. Nella seconda delle due arie del quarto atto, “Ah ! Je meurs, l’âme joyeuse”, canta le prime quattro semifrasi in una sola presa di fiato, cosa che finora, tra i grandi baritoni del presente, ho sentito fare solo da Ludovic Tézier. In più canta l’aria quasi sempre steso sul palcoscenico, dopo aver subito il mortale colpo, trascinandosi penosamente verso Don Carlos, chiuso nella gabbia/prigione.
Rivelazione della serata, almeno per chi scrive, è il basso-baritono Christian Van Horn, la cui voce, rotonda e penetrante, risulta udibile in ogni regione della tessitura senza alcuna forzatura. Esemplare è la discesa di due ottave nella frase conclusiva del duetto con il Grand Inquisiteur, “L’orgueil du roi fléchit devant l’orgueil du prêtre !”, in cui Fa acuto e Fa basso sono risolti come meglio non si potrebbe. Il monologo Elle ne m’aime pas, salutato da grandi applausi, è stato eccelso per legato, anche se purtroppo eseguito senza l’auspicabile grandiosità, per via di un tempo più veloce del solito. Mancava inoltre, all’inizio dell’aria, quel colore particolare della voce proprio di colui che è in stato di dormiveglia, e che ricordo di aver udito da pochi cantanti, ad esempio da Boris Christoff e più recentemente da Samuel Ramey. Ciò non pregiudica affatto la grande prova di Van Horn. Non ci sono dubbi che in prossime produzioni il basso-baritono potrà affinare il ruolo, eventualmente aggiungendo ulteriori nuances all’esecuzione della grande aria.
Festeggiata anche l’Eboli di Ekaterina Gubanova, navigata interprete del personaggio prevalentemente nella versione italiana. La chanson du voile impressiona per la precisione delle sestine in staccato, mentre nella duplice cadenza la voce potrebbe in futuro essere più rilassata nell’esecuzione dei Fa-La acuti alternati. La resa di “Ô don fatal et détesté” mostra la grande sicurezza nella regione acuta della cantante e la solidità nel registro medio-grave, nonché la capacità di alleggerire il volume nella sezione centrale, “Adieu reine, victime pure”. Scenicamente Gubanova rende tutta la contraddittorietà del personaggio, e ciò anche superando alcune soluzioni registiche che non aiutano a comunicare con immediatezza la passionalità del ruolo: durante la chanson du voile Eboli è infatti una maestra di scherma; inoltre, durante il terzetto del terzo atto, proprio nel momento di massima gelosia, Rodrigue le accende una sigaretta, come se nell’esplosione della collera fosse possibile mantenere l’impassibilità attraverso un gesto banalmente quotidiano.
Grande anche la prova di Alexander Tsymbalyuk quale Grand Inquisiteur, dalla voce non solo tonitruante ma anche capace di occasionali sottigliezze dinamiche. I suoni all’estremità grave della tessitura, come nel caso di Van Horn, erano perfettamente udibili e di timbro solido. Convincente anche il frate di Sava Vemić. Precisa la prestazione di Marine Chagnon, membro della troupe lyrique dell’Opéra di Paris, impegnata nella parte di Thibault. Nella parte del comte de Lerme meraviglia la bellezza del timbro di Manase Latu, senz’altro capace di prodursi in futuro in ruoli di maggiore impegno. Puntuali la voix d’en haut di Teona Todua e il contributo, non facile perché non sostenuto dall’orchestra, dell’héraut royal di Hyun-Joong Roh. Completano il cast i députés flamands di Amin Ahangaran, Niall Anderson, Alejandro Baliñas Vietes, Vartan Gabrielian, Florent Mbia e Milan Perišic. Tanto il loro contributo quanto quello del coro, quest’ultimo preparato da Ching-Lien Wu, è stato esemplare per precisione e accuratezza.
L’orchestra diretta da Simone Young suona ai massimi livelli, pregevole come è nella chiarezza delle numerose figure di accompagnamento che costellano la partitura. I tempi scelti da Young sono talora piuttosto rapidi, una decisione che si può anche non condividere; ma la resa esemplare dei fraseggi, la leggerezza nell’accompagnamento delle voci, le sfumature dinamiche, mostrano con quanta cura, anche musicale, sia stata preparata questa ripresa della produzione, un evento di particolare rilievo dato il raro e ammirevole rispristino di tutti i tagli.
Don Carlos : Charles Castronovo
Elisabeth de Valois : Marina Rebeka
Philippe II : Christian Van Horn
La Princesse Eboli : Ekaterina Gubanova
Rodrigue : Andrzej Filończyk
Le Grand Inquisiteur : Alexander Tsymbalyuk
Un Moine : Sava Vemić
Thibault : Marine Chagnon
Une voix d’en haut : Teona Todua
Le Comte de Lerme : Manase Latu
Un hérault royal : Hyun-Jong Roh
Un coryphée : Christian Rodrigue Moungoungou
Six députés flamands : Amin Ahangaran, Niall Anderson, Alejandro Baliñas Vieites, Vartan Gabrielian, Florent Mbia, Milan Perišić
Charles Quint : Yann Collette
Orchestre et Chœurs de l’Opéra national de Paris, dir. Simone Young
Cheffe des Chœurs : Ching-Lien Wu
Mise en scène : Krzysztof Warlikowski
Décors et costumes : Małgorzata Szczęśniak
Lumières : Felice Ross
Vidéo : Denis Guéguin
Chorégraphie : Claude Bardouil
Dramaturgie : Christian Longchamp
Don Carlos
Opéra en cinq actes de Giuseppe Verdi, livret de Joseph Méry et Camille du Locle d’après la tragédie Don Carlos de Friedrich von Schiller, créé le 11 mars 1867 à l’Opéra de Paris.
Opéra national de Paris Bastille, représentation du samedi 29 mars 2025.